"L'intimo intreccio"
Editore:
Bietti
Quanto della nostra vita può essere
ripercorso seguendo il filo dei ricordi legati al cibo? Quasi tutto:
l’intimo intreccio tra cibo e vita si disvela chiaramente in queste
pagine spesso esilaranti, a volte toccanti, sempre agili e scorrevoli.
Ne esce una vivacissima galleria di personaggi veri: dal maresciallo
musicista e cuoco raffinato al ristoratore che non riconosce che il vino
sa di tappo, dal giornalista gastronomo che detta legge dagli schermi
televisivi al grande cuoco che stabilisce lui stesso quello che
mangerai, è tutto un susseguirsi di aneddoti e bozzetti capaci di
ricostruire con immediata efficacia situazioni ed ambienti. E le
originali, a volte un po’ provocatorie considerazioni dell’autore su
alcuni aspetti più tecnici del far cucina non potranno che maggiormente
coinvolgere e appassionare il lettore goloso. |
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12. IL SEGRETO DI UN
BUON CAFFÈ
Qual è il segreto di un buon
caffè? Mi riferisco al caffè di casa, non a quello del bar, che chiaramente
appartiene a tutt’altro pianeta e per il quale ho motivo di credere che la
questione si ponga in termini assai più semplici. Qual è, dunque, il segreto?
La particolare qualità della miscela utilizzata? Questo è il segreto di
Pulcinella. Che cosa, allora? La macchinetta che usiamo e come la usiamo,
moka, napoletana o altro che sia? Macché. Usare caffè in grani e macinarlo
solo al momento dell’uso? Non se ne parla. Sono tutte cose importanti, ma come
tutti sanno non bastano, il risultato non è affatto garantito: c’è un’altra,
indispensabile condizione. E purtroppo a me non è dato conoscere quale
precisamente essa sia: anzi, il mistero mi appare così fitto e impenetrabile
che ormai, come qui appresso si narra, ho definitivamente rinunciato a capirci
qualcosa.
Arrivammo a Varigotti nel
tardo pomeriggio: dopo mesi di abbandono, la nostra casetta
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in realtà, un appartamentino condominiale
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ci accolse. Era d’inverno, era ormai buio. Accendemmo la stufa a cherosene,
aprimmo le sacche e le valigie, sistemammo le cose negli armadi e nei
cassetti: la vacanza natalizia era cominciata. Dopo cena andai a fare il mio
tradizionale sopralluogo al paese vecchio. Amavo tanto quelle mie ricognizioni
solitarie: tutti gli anni, in quelle sere d’inverno, il borgo vecchio di
Varigotti, praticamente disabitato, mi accoglieva con la malia dei suoi vicoli
silenziosi, dei suoi archivolti, delle sue scalette, illuminato appena, qua e
là, come un presepio, da qualche lume che dondolava nella brezza del mare.
Quanta pace, al confronto della frenesia estiva. Quanta bellezza, al paragone
di certi casamenti della parte nuova del paese. Nel cielo ardevano le
costellazioni d’inverno: Cassiopea, l’Auriga, il Perseo, Orione con Betelgeuse
la rossa e col bianco diamante di Rigel, le Ìadi con Aldebaran colore
dell’oro, le tremule Pleiadi... Più in basso, a sinistra di Orione, poco sopra
la linea del mare, sfolgorava Sirio, regina del firmamento. Guardavo, fermo
sul molo, l’immensità del cielo, ripassavo le mie scarse conoscenze
astronomiche, mi abbandonavo alla vertigine: la luce che io vedo adesso,
riflettevo, la luce che in questo momento giunge su di me dallo spazio, è
partita da Sirio quasi nove anni fa; è partita da Aldebaran sessantotto anni
fa, alcuni anni prima della guerra del 15-18; è partita da Rigel
seicentocinquanta anni fa... Dante era morto da poco, dovevano passare più di
cento anni prima che Leonardo venisse al mondo, e già la luce di Rigel, quella
che in questo preciso istante mi entra negli occhi, era in viaggio verso di
me! Tornando verso casa vedevo le finestre illuminate del nostro salottino:
mia moglie doveva avere ormai finito di riordinare tavola e cucina, pregustavo
il calore della casa, il bacio della buonanotte ai bambini. Pensando a quelle
vacanze invernali piene di pace e silenzio, sento sempre tanta nostalgia,
molto più che pensando alle vacanze al mare dei fragorosi periodi estivi.
Di buon mattino (sono io
il mattiniero delle famiglia), mi accinsi, come sempre, a preparare il caffè
per il caffelatte della prima colazione: il buon caffelatte delle vacanze al
mare, tanto migliore di quello solito, lavorativo, della città: una dei
piaceri gastronomici che mi attendevano in quei giorni di vacanza. Gli altri
erano la focaccia dell’Enrica, il pesce del Bacicetta, pescato nel mare
antistante poche ore prima, e quel vino di mare
- Lumassina,
Vermentino o Buzzetto che fosse -
un po’ ruvido, un po’ aspro, compagno ideale di ogni piatto di pesce. Il
programma prevedeva anche una cena da Muraglia (il ristorante progenitore
dell’odierno Conchiglia d’oro), e beninteso una serata da Ferrer il sommo, a
Spotorno (la Caravella esisteva già allora, ma la trascuravamo, non era ancora
quel fior di ristorante che sarebbe diventata di lì a qualche anno). Dunque,
il caffelatte: quando, aperto lo sportello della credenza, mi accorsi che la
scatola del caffè macinato era stata lasciata semiaperta da chi l’aveva usata
per ultimo, grande fu il mio disappunto. Maledizione! Tutti questi mesi!
L’aroma del caffè era sicuramente ormai svaporato. Che fare? In casa non c’era
altro caffè, uscire per andare a comprarne non ne avevo proprio voglia: era
ancora buio, tirava vento, probabilmente la bottega era ancora chiusa. Dovetti
rassegnarmi, usare per il momento il caffè che il convento passava. E... cosa
ottenni? Il solito, delizioso risultato: un caffè che a Milano, a casa mia, me
lo posso solo sognare.
Rimasi interdetto: come
diavolo era possibile? Ma allora tutto dipendeva dalla macchinetta
utilizzata, la piccola caffettiera napoletana della casa, vecchia di svariati
decenni: forse il tempo trascorso, il lungo uso avevano in qualche modo
condizionato le sue superfici metalliche, dato che, a Milano, con una macchina
dello stesso tipo, ma seminuova, e con caffè della stessa marca non si
otteneva affatto lo stesso risultato. Dunque, se volevo fruire anche in città
del piacere mattutino di un buon caffelatte non restava che una soluzione:
trafugare la macchinetta, trasferirla dal mare in città
-
come puntualmente fu fatto. Invano, peraltro, perché a Milano la macchinetta
dei miracoli non si ambientò, non si ritrovò, fece cilecca: ne scaturì, con
mio grave scorno, il solito, normalissimo, modesto caffè di sempre. Né più, né
meno.
Tutto, a questo punto, mi
parve improvvisamente chiaro: il segreto non stava nella macchina, stava
nell’acqua. Tanto più strano se si pensa che, al mare, dai rubinetti di casa
usciva un’acqua nient’affatto buona, che noi ci guardavamo dal bere. Ma la
chimica è la chimica: evidentemente, la particolare composizione di
quell’acqua la rendeva adatta a estrarre dal caffè gli aromi più reconditi.
Disporre a Milano della stessa identica acqua di Varigotti era impossibile (e
in realtà non auspicabile): addio per sempre, dunque, buon caffelatte delle
vacanze al mare. Mi ripromisi comunque di fare un giorno o l’altro, per puro
amore di conoscenza, l’esperimento finale, quello che avrebbe chiuso una volta
per tutte la questione: preparare il caffè a Milano con acqua prelevata dai
rubinetti di Varigotti.
Mesi più tardi, mentre, tornato
in città dal mare, stavo per l’appunto riempiendo con acqua varigottese il
serbatoio della macchinetta, il senso dell’inutilità d’improvviso mi colse. Fu
un presentimento: invano l’acqua bollente, docile alla forza di gravità, scese
a valle dal primo piano della caffettiera; invano, prima di raccogliersi al
piano terra, filtrò lentamente attraverso lo strato di caffè in polvere
tentando di carpirne gli umori: niente, dal beccuccio della caffettiera non si
sprigionò la fragranza agognata, ma ancora e sempre il mediocre, stentato
profumino di tutte le mie mattine milanesi. E non parliamo del sapore! Niente
da fare, neanche l’acqua serviva.
Qual è dunque il vero
segreto di un buon caffè? Il lettore penserà forse che, essendosi dovuto
escludere prima la qualità della miscela, poi la macchinetta, infine l’acqua,
non resti che l’aria: il segreto del buon caffè è l’aria, sulla riviera di
ponente per esempio viene bene, a Milano non c’è speranza (per lo meno in zona
Città Studi, magari a San Siro o alla Bovisa viene benissimo). Sarà, non sarà:
il segreto potrebbe anche essere una qualche opportuna e ben calibrata
combinazione di caffè, macchinetta, acqua e aria. Per quanto mi riguarda,
questa storia mi ha stancato: ho sospeso le ricerche, ho rinunciato a capire.
Tiro avanti tutte le mattine col solito caffelatte, che non sarà un granché ma
dopotutto è parte della mia vita, e in un certo senso potrei dire che gli sono
affezionato.

Le lungaggini editoriali non sono di per sé un valore, ma in questo
specifico caso sì, se è vero che mi mettono nella condizione di poter oggi
correggere, a distanza di più di un anno, la conclusione del capitolo
annunciando al mondo che l’enigma è risolto: la differenza tra caffè del
mare e caffè di città non esiste. O, per meglio dire: esiste, ma non sta
nel caffè, sta nel palato. Me ne sono reso conto notando quanto più
saporita mi risultava, al mare, la stessa acqua minerale che bevo a
Milano; e, a tavola, quanto più prelibato mi risultava il mio vino
abituale, che per la prima volta mi ero portato al mare da casa. Del
resto, non è forse vero che quando, in passato, ho bevuto a Milano il vino
ligure trasportato da Varigotti, dove m’era parso eccellente, ho sempre
provato un senso di delusione? Resta a questo punto da spiegare come mai
al mare il palato è diverso che in città. Io suppongo che debba essere un
effetto della diversa composizione fisico-chimica dell’aria che si respira
(penso in particolare al salino del mare): nel qual caso, la causa prima
del fenomeno sarebbe in definitiva proprio l’aria. Tutto, allora, è più
buono al mare? Stento a crederlo, ma mi riservo di approfondire.
C’è un altro interrogativo:
il caffè fa bene o fa male? Siamo nell’area di competenza degli scienziati
dell’alimentazione, e qui più che altrove dobbiamo essere preparati alle
sorprese. Oggi sappiamo, ad esempio, che dobbiamo bere ogni giorno molta,
moltissima acqua: non se ne beve mai abbastanza. Ma io ricordo bene di
aver letto diversi anni fa che, secondo il parere di un eminente
personaggio del mondo medico-dietetico, l’ideale, d’estate, sarebbe di non
bere affatto, «per non
innescare il circolo vizioso sudore-sete-sudore».
Per il caffè, siamo attualmente in un periodo favorevole, converrà
approfittarne. Anni addietro avevo letto che col caffé e con qualcos’altro
(lo zucchero, credo) occorreva tagliare di netto, perché
«sono veleni». In epoca meno
remota ho appreso con sollievo dai giornali che in realtà il caffè non fa
né male né bene, non fa niente. Era il segnale della riscossa. Pochi
giorni fa ho trovato riportata su un quotidiano, e messa in bella
evidenza, questa autorevole dichiarazione:
«Il caffè è un toccasana per il
corpo. È antidepressivo, aumenta l’attenzione, fa bene alla circolazione e
non fa male alla pelle. Fino a quattro tazzine al giorno è assolutamente
innocuo».
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