Il segreto di un buon caffè

 

Home > I nostri racconti

 

Giovanni Tonzig autore del libro "L'intimo intreccio" ci ha inviato il capitolo interamente ambientato a Varigotti.

Il libro, in vendita anche nell’edicola di Varigotti, può essere ordinato in qualsiasi libreria oltre che nelle diverse librerie on line. Una presentazione del libro avrà luogo in Varigotti il giorno 16 agosto 2007, ore 18:30, presso la Biblioteca (centro Civico R. Fontana).

"L'intimo intreccio"
Editore:
Bietti
 

Quanto della nostra vita può essere ripercorso seguendo il filo dei ricordi legati al cibo? Quasi tutto: l’intimo intreccio tra cibo e vita si disvela chiaramente in queste pagine spesso esilaranti, a volte toccanti, sempre agili e scorrevoli. Ne esce una vivacissima galleria di personaggi veri: dal maresciallo musicista e cuoco raffinato al ristoratore che non riconosce che il vino sa di tappo, dal giornalista gastronomo che detta legge dagli schermi televisivi al grande cuoco che stabilisce lui stesso quello che mangerai, è tutto un susseguirsi di aneddoti e bozzetti capaci di ricostruire con immediata efficacia situazioni ed ambienti. E le originali, a volte un po’ provocatorie considerazioni dell’autore su alcuni aspetti più tecnici del far cucina non potranno che maggiormente coinvolgere e appassionare il lettore goloso.

   

12.  IL SEGRETO DI UN BUON CAFFÈ

Qual è il segreto di un buon caffè? Mi riferisco al caffè di casa, non a quello del bar, che chiaramente appartiene a tutt’altro pianeta e per il quale ho motivo di credere che la questione si ponga in termini assai più semplici. Qual è, dunque, il segreto? La particolare qualità della miscela utilizzata? Questo è il segreto di Pulcinella. Che cosa, allora? La macchinetta che usiamo e come la usiamo, moka, napoletana o altro che sia? Macché. Usare caffè in grani e macinarlo solo al momento dell’uso? Non se ne parla. Sono tutte cose importanti, ma come tutti sanno non bastano, il risultato non è affatto garantito: c’è un’altra, indispensabile condizione. E purtroppo a me non è dato conoscere quale precisamente essa sia: anzi, il mistero mi appare così fitto e impenetrabile che ormai, come qui appresso si narra, ho definitivamente rinunciato a capirci qualcosa.

Arrivammo a Varigotti nel tardo pomeriggio: dopo mesi di abbandono, la nostra casetta - in realtà, un appartamentino condominiale - ci accolse. Era d’inverno, era ormai buio. Accendemmo la stufa a cherosene, aprimmo le sacche e le valigie, sistemammo le cose negli armadi e nei cassetti: la vacanza natalizia era cominciata. Dopo cena andai a fare il mio tradizionale sopralluogo al paese vecchio. Amavo tanto quelle mie ricognizioni solitarie: tutti gli anni, in quelle sere d’inverno, il borgo vecchio di Varigotti, praticamente disabitato, mi accoglieva con la malia dei suoi vicoli silenziosi, dei suoi archivolti, delle sue scalette, illuminato appena, qua e là, come un presepio, da qualche lume che dondolava nella brezza del mare. Quanta pace, al confronto della frenesia estiva. Quanta bellezza, al paragone di certi casamenti della parte nuova del paese. Nel cielo ardevano le costellazioni d’inverno: Cassiopea, l’Auriga, il Perseo, Orione con Betelgeuse la rossa e col bianco diamante di Rigel, le Ìadi con Aldebaran colore dell’oro, le tremule Pleiadi... Più in basso, a sinistra di Orione, poco sopra la linea del mare, sfolgorava Sirio, regina del firmamento. Guardavo, fermo sul molo, l’immensità del cielo, ripassavo le mie scarse conoscenze astronomiche, mi abbandonavo alla vertigine: la luce che io vedo adesso, riflettevo, la luce che in questo momento giunge su di me dallo spazio, è partita da Sirio quasi nove anni fa; è partita da Aldebaran sessantotto anni fa, alcuni anni prima della guerra del 15-18; è partita da Rigel seicentocinquanta anni fa... Dante era morto da poco, dovevano passare più di cento anni prima che Leonardo venisse al mondo, e già la luce di Rigel, quella che in questo preciso istante mi entra negli occhi, era in viaggio verso di me! Tornando verso casa vedevo le finestre illuminate del nostro salottino: mia moglie doveva avere ormai finito di riordinare tavola e cucina, pregustavo il calore della casa, il bacio della buonanotte ai bambini. Pensando a quelle vacanze invernali piene di pace e silenzio, sento sempre tanta nostalgia, molto più che pensando alle vacanze al mare dei fragorosi periodi estivi.

Di buon mattino (sono io il mattiniero delle famiglia), mi accinsi, come sempre, a preparare il caffè per il caffelatte della prima colazione: il buon caffelatte delle vacanze al mare, tanto migliore di quello solito, lavorativo, della città: una dei piaceri gastronomici che mi attendevano in quei giorni di vacanza. Gli altri erano la focaccia dell’Enrica, il pesce del Bacicetta, pescato nel mare antistante poche ore prima, e quel vino di mare - Lumassina, Vermentino o Buzzetto che fosse - un po’ ruvido, un po’ aspro, compagno ideale di ogni piatto di pesce. Il programma prevedeva anche una cena da Muraglia (il ristorante progenitore dell’odierno Conchiglia d’oro), e beninteso una serata da Ferrer il sommo, a Spotorno (la Caravella esisteva già allora, ma la trascuravamo, non era ancora quel fior di ristorante che sarebbe diventata di lì a qualche anno). Dunque, il caffelatte: quando, aperto lo sportello della credenza, mi accorsi che la scatola del caffè macinato era stata lasciata semiaperta da chi l’aveva usata per ultimo, grande fu il mio disappunto. Maledizione! Tutti questi mesi! L’aroma del caffè era sicuramente ormai svaporato. Che fare? In casa non c’era altro caffè, uscire per andare a comprarne non ne avevo proprio voglia: era ancora buio, tirava vento, probabilmente la bottega era ancora chiusa. Dovetti rassegnarmi, usare per il momento il caffè che il convento passava. E... cosa ottenni? Il solito, delizioso risultato: un caffè che a Milano, a casa mia, me lo posso solo sognare.

Rimasi interdetto: come diavolo era possibile? Ma allora tutto dipendeva dalla mac­chi­netta utilizzata, la piccola caffettiera napoletana della casa, vecchia di svariati decenni: forse il tempo trascorso, il lungo uso avevano in qualche modo condizionato le sue superfici metalliche, dato che, a Milano, con una macchina dello stesso tipo, ma seminuova, e con caffè della stessa marca non si otteneva affatto lo stesso risultato. Dunque, se volevo fruire anche in città del piacere mattutino di un buon caffelatte non restava che una soluzione: trafugare la macchinetta, trasferirla dal mare in città - come puntualmente fu fatto. Invano, peraltro, perché a Milano la macchinetta dei miracoli non si ambientò, non si ritrovò, fece cilecca: ne scaturì, con mio grave scorno, il solito, normalissimo, modesto caffè di sempre. Né più, né meno.

Tutto, a questo punto, mi parve improvvisamente chiaro: il segreto non stava nella macchina, stava nell’acqua. Tanto più strano se si pensa che, al mare, dai rubinetti di casa usciva un’acqua nient’affatto buona, che noi ci guardavamo dal bere. Ma la chimica è la chimica: evidentemente, la particolare composizione di quell’acqua la rendeva adatta a estrarre dal caffè gli aromi più reconditi. Disporre a Milano della stessa identica acqua di Varigotti era impossibile (e in realtà non auspicabile): addio per sempre, dunque, buon caffelatte delle vacanze al mare. Mi ripromisi comunque di fare un giorno o l’altro, per puro amore di conoscenza, l’esperimento finale, quello che avrebbe chiuso una volta per tutte la questione: preparare il caffè a Milano con acqua prelevata dai rubinetti di Varigotti.

Mesi più tardi, mentre, tornato in città dal mare, stavo per l’appunto riempiendo con acqua varigottese il serbatoio della macchinetta, il senso dell’inutilità d’improvviso mi colse. Fu un presentimento: invano l’acqua bollente, docile alla forza di gravità, scese a valle dal primo piano della caffettiera; invano, prima di raccogliersi al piano terra, filtrò lentamente attraverso lo strato di caffè in polvere tentando di carpirne gli umori: niente, dal beccuccio della caffettiera non si sprigionò la fragranza agognata, ma ancora e sempre il mediocre, stentato profumino di tutte le mie mattine milanesi. E non parliamo del sapore! Niente da fare, neanche l’acqua serviva.

Qual è dunque il vero segreto di un buon caffè? Il lettore penserà forse che, essendosi dovuto escludere prima la qualità della miscela, poi la macchinetta, infine l’acqua, non resti che l’aria: il segreto del buon caffè è l’aria, sulla riviera di ponente per esempio viene bene, a Milano non c’è speranza (per lo meno in zona Città Studi, magari a San Siro o alla Bovisa viene benissimo). Sarà, non sarà: il segreto potrebbe anche essere una qualche opportuna e ben calibrata combinazione di caffè, macchinetta, acqua e aria. Per quanto mi riguarda, questa storia mi ha stancato: ho sospeso le ricerche, ho rinunciato a capire. Tiro avanti tutte le mattine col solito caffelatte, che non sarà un granché ma dopotutto è parte della mia vita, e in un certo senso potrei dire che gli sono affezionato.[1]


 

[1] Le lungaggini editoriali non sono di per sé un valore, ma in questo specifico caso sì, se è vero che mi mettono nella condizione di poter oggi correggere, a distanza di più di un anno, la conclusione del capitolo annunciando al mondo che l’enigma è risolto: la differenza tra caffè del mare e caffè di città non esiste. O, per meglio dire: esiste, ma non sta nel caffè, sta nel palato. Me ne sono reso conto notando quanto più saporita mi risultava, al mare, la stessa acqua minerale che bevo a Milano; e, a tavola, quanto più prelibato mi risultava il mio vino abituale, che per la prima volta mi ero portato al mare da casa. Del resto, non è forse vero che quando, in passato, ho bevuto a Milano il vino ligure trasportato da Varigotti, dove m’era parso eccellente, ho sempre provato un senso di delusione? Resta a questo punto da spiegare come mai al mare il palato è diverso che in città. Io suppongo che debba essere un effetto della diversa composizione fisico-chimica dell’aria che si respira (penso in particolare al salino del mare): nel qual caso, la causa prima del fenomeno sarebbe in definitiva proprio l’aria. Tutto, allora, è più buono al mare? Stento a crederlo, ma mi riservo di approfondire.

C’è un altro interrogativo: il caffè fa bene o fa male? Siamo nell’area di competenza degli scienziati dell’alimentazione, e qui più che altrove dobbiamo essere preparati alle sorprese. Oggi sappiamo, ad esempio, che dobbiamo bere ogni giorno molta, moltissima acqua: non se ne beve mai abbastanza. Ma io ricordo bene di aver letto diversi anni fa che, secondo il parere di un eminente personaggio del mondo medico-dietetico, l’ideale, d’estate, sarebbe di non bere affatto, «per non innescare il circolo vizioso sudore-sete-sudore». Per il caffè, siamo attualmente in un periodo favorevole, converrà approfittarne. Anni addietro avevo letto che col caffé e con qualcos’altro (lo zucchero, credo) occorreva tagliare di netto, perché «sono veleni». In epoca meno remota ho appreso con sollievo dai giornali che in realtà il caffè non fa né male né bene, non fa niente. Era il segnale della riscossa. Pochi giorni fa ho trovato riportata su un quotidiano, e messa in bella evidenza, questa autorevole dichiarazione: «Il caffè è un toccasana per il corpo. È antidepressivo, aumenta l’attenzione, fa bene alla circolazione e non fa male alla pelle. Fino a quattro tazzine al giorno è assolutamente innocuo».


 
                

 

  indietro